Poco tempo fa qui sul blog si parlava di body positivity in un articolo che ha riscosso moltissimo successo grazie alle vostre numerose condivisioni e apprezzamenti, sia online che offline.
Questo fatto mi ha portata a riflettere ulteriormente sull’importanza della condivisione e di quanto, semplicemente dire le cose ad alta voce (ad esempio nelle stories su Instagram o per iscritto qui sul blog), possa in realtà fare una grandissima differenza per tante persone, in particolare nel mio caso per tante donne.
Una differenza data dalla possibilità di confronto e dal sentirsi meno sole nel proprio vissuto, nei propri traumi o momenti difficili, che capita a tutte di vivere soprattutto quando si parla di temi delicati come il rapporto con il proprio corpo e l’accettazione di sé.
In questi giorni di vacanza al mare sto vivendo a ritmi del tutto diversi da quelli della mia vita a Roma, trascorro queste giornate da 24 ore senza impegni di nessun tipo e il mio tempo si è dilatato in modo indefinito: dicono che la vera vacanza sia quella in cui perdi la cognizione dei giorni della settimana, e io la sto vivendo in pieno.
È vero, non so che giorno è, forse domenica da almeno 72 ore o più, nell’aria c’è un misto di indolenza e malinconia che il mare mi lascia sempre fin da quando sono bambina, forse perché lo associo alle cose che finiscono – l’estate, le vacanze.
Ed è proprio in questi giorni, immersa in mille letture, che riflettevo sull’eterno binomio “mente-corpo” che accompagna la nostra società fin dai tempi più antichi.
Gli antichi romani dicevano “mens sana in corpore sano”, come se mente e corpo fossero due entità nettamente distinte. Ma forse è ancora di più il retaggio della tradizione cattolica ad averci instillato l’idea che siamo un’anima immateriale dentro un corpo tangibile.
Flash forward al 2020 anni d.c., torniamo a noi donne di oggi: separate dal nostro corpo, come se fosse un’entità esterna con cui abbiamo poco a che fare.
Un corpo bistrattato, maltrattato, nascosto prima, sovraesposto poi, giudicato, moralizzato, ipersessualizzato, oggettificato, sempre al centro di critiche da tutti i fronti.
E, il risultato, è che per l’appunto abbiamo finito con il considerare noi stesse come qualcosa di astratto (un’anima? una mente?) all’interno di un involucro imperfetto che a volte tolleriamo, più spesso odiamo e disprezziamo come se fosse qualcosa di altro da noi.
Per questo ho trovato illuminante la riflessione, tanto semplice ma forse per nulla scontata, che io sono il mio corpo. È come se fino a questo momento questa affermazione fosse stata vuota e solo ora si sia caricata di significato:
io non sono qualcosa di astratto dentro a un corpo, no. Io sono il mio corpo molto più di quanto non sia tutto il resto.
Trovo assurdo che sia più facile pensare a noi stesse come qualcosa di non concreto, di immateriale e intangibile, piuttosto che come corpi – non solo, ma sopratutto corpi nella loro dimensioni fisica e concreta.
Il mio stupore nel fare questa constatazione sta sopratutto nel fatto che è proprio questo stato di separazione, secondo me, a favorire il giudizio così critico e severo su noi stesse, cioè sui nostri corpi e su quelli degli altri, come se non stessimo parlando di persone ma di cose, di oggetti.
Ci è poi stato insegnato che il corpo è il male, che il piacere è peccato e che il corpo delle donne è la perfetta rappresentazione di entrambe le cose.
Quello che voglio dire è che solo considerando il corpo come un oggetto diviso dalla mente è possibile trattarlo così male: altrimenti perché sarebbe così facile criticarlo, demolirlo, giudicarlo tanto duramente?
Partiamo dal presupposto che se ci adattiamo a uno standard di bellezza esteriore imposto ci stiamo già percependo come oggetti, perché in natura non esistono standard di bellezza unici e rigidi e neppure a livello universale, al punto che ogni cultura ha i suoi.
La bellezza assoluta nei corpi non può essere data da un modello unico, perché tutti i corpi sono diversi e la natura è fatta di varietà e diversità e lo scopo ultimo dell’aspetto non è mai fine a se stesso (tutte le caratteristiche esteriori degli esseri viventi sono il frutto di evoluzione e adattamento per la sopravvivenza, come il collo lungo delle giraffe o i colori sgargianti dei fiori).
Per tornare al senso del mio discorso, ora pensate a un esempio concreto: andreste mai da un’estranea per strada a dirle “ma lo sai che sei proprio un infame?”, così dal nulla. Se questa situazione è alquanto improbabile, culturalmente sappiamo che è possibilismo che alla stessa persona vengano rivolti commenti sul suo aspetto fisico, richiesti e non.
Il punto è che quella è sempre la stessa persona, come unione di mente/anima/personalità e corpo/contenitore/esteriorità. E quel corpo è quella persona. Quel corpo è una persona, è un vissuto, è un tutt’uno che vive in questo mondo e sente e soffre e percepisce come tutti noi, senza distinzioni.
Io sono il mio corpo, voi siete il vostro corpo, molto più di un’idea astratta di anima eterna dentro un contenitore mortale. E anche nel caso in cui foste estremamente religiose e questo discorso vi faccia storcere il naso, non sta scritto da nessuna parte che nel 2020 dobbiamo ancora odiare il nostro corpo fisico.
Fare pace con questa verità è sicuramente più difficile che rimanere nella propria consapevolezza secondo la quale come persone possiamo fregarcene di essere delle schifezze, ma l’importante è avere il culo sodo.
Ecco, sarebbe bello che tornassimo a pensarci come un tutt’uno di mente e corpo, preoccupandoci del risultato complessivo, smettendo di vederci come degli oggetti che non ci appartengono, come dei pezzi fallati che non assomigliano a qualcun altro o a qualcos’altro.
Sarebbe bello e liberatorio se riuscissimo per prime a non trattarci come corpi fatti a pezzi, come cosce, pance, tette, labbra, occhi.
Sarebbe bello se pensassimo a noi stesse come persone fatte di un corpo che ci rappresenta e ci permette di vivere in questo mondo, che è la nostra forza e la nostra essenza.
Con questo post non volevo arrivare da nessuna parte in particolare, solo condividere questa riflessione con voi, che magari porterà a un nuovo confronto, a uno scambio di visioni ed esperienze e magari, possibilmente, metterà in circolo un po’ più di amore per i nostri corpi e per noi stesse.
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