La cosa bella di Rione Traiano è l’umanità che ci sta dentro.
Pietro Orlando
La cosa brutta di Rione Traiano è l’abbandono di questa unanimità.
Amo Napoli in tutte le sue forme, nella sua umanità, nel suo dialetto, nei suoi colori, nei suoi sapori e nei suoi lati più difficili. Non sono napoletana di nascita, ma di cuore mi sento da sempre molto vicina a questa città.
Per questo, ogni qual volta che mi si propone un’attività che la riguarda, la mia felicità aumenta sempre di qualche punto, se supponiamo che ci sia una scala numerica per misurarla, come quando da bambini ti chiedevano “quanto sei felice da 1 a 10?”.
Questa volta l’occasione per parlare di Napoli è il docu-film “Selfie”, ultimo lavoro del regista Agostino Ferrente, che ho visto in anteprima nei giorni scorsi e che uscirà nelle sale il 30 maggio.
Il documentario prende le mosse dalla drammatica vicenda di Davide Bifolco, un ragazzo di 16 anni che nel 2014 muore a causa di un proiettile che lo colpisce alle spalle: a sparargli un carabiniere che lo aveva scambiato per un latitante.
Davide non aveva mai avuto alcun problema con la giustizia, ma come tanti adolescenti cresciuti in quartieri difficili, aveva lasciato la scuola e sognava di diventare calciatore.
L’episodio si trasformò ben presto in un caso mediatico: prove inquinate, scena del delitto manomessa, il carabiniere che spara “per sbaglio” e commette un omicidio colposo anziché volontario (alla fine sarà condannato a soli 2 anni), Davide che viene fatto passare per colpevole della propria morte più che come un ragazzo di sedici anni vittima innocente di un omicidio a sangue freddo.
Se ne diranno tante su Davide e sul suo quartiere: “è solo un delinquente in meno”, sentenzieranno in molti di fronte al dramma di questa famiglia e di un intero Rione già troppo abituato a vedersi strappare giovani vite dalla delinquenza, dallo spaccio e dalla Camorra.
Dopo “L’Orchestra di Piazza Vittorio” e “Le cose belle”, avevo giurato di non realizzare più documentari. Avevo sofferto troppo entrando nelle vite delle persone coinvolte: non so fare documentari diversamente, ho bisogno di immergermi a fondo nella realtà che voglio raccontare, fino a diventarne parte. Non so realizzare documentari d’osservazione, raccontare in maniera neutra. No: io sprofondo nella realtà di cui mi innamoro e non voglio più raccontarla, voglio modificarla, “ripararla”.
Agostino Ferrente
Ma poi venni a conoscenza della storia di Davide.
Questo il cuore di “Selfie”, una storia che il resiste Agostino Ferrente sceglie di raccontare da un punto di vista completamente inaspettato, mettendo un iPhone in mano a due coetanei di Davide, Alessandro e Pietro, che come lui vivono a Rione Traiano e affrontano ogni giorno le problematiche di un quartiere popolare di Napoli.
Alessandro è cresciuto senza il padre, che dopo la separazione dalla madre si è trasferito lontano dalla città. Ha lasciato la scuola dopo una lite con l’insegnante che “pretendeva” imparasse a memoria L’Infinito di Leopardi.
Ora fa il garzone in un bar: non guadagna molto, non va in vacanza ma ha un lavoro onesto in un quartiere dove lo spaccio, per i giovani disoccupati, è un ammortizzatore sociale di facile accesso e di guadagno assicurato.
Pietro invece ha frequentato una scuola per parrucchieri, ma al momento non riesce a trovare lavoro. Il padre, pizzaiolo, ha un lavoro stagionale fuori città e torna a casa una volta alla settimana, mentre la madre è andata in vacanza al mare con gli altri due figli durante l’estate.
Lui ha deciso di rimanere al Rione per fare compagnia al suo migliore amico e iniziare una dieta che rinvia da troppo tempo.
Nel corso di un’estate di riprese, Alessandro e Pietro ci porteranno all’interno della loro vita e di quella del quartiere, coinvolgendo amici e altri personaggi che interagiranno con loro o diventeranno protagonisti per qualche scena semplicemente impugnando lo smartphone e assumendo la regia in modalità “selfie”.
A seguire i ragazzi, il regista e la troupe sempre presenti, pronti a dare indicazioni, a guidare i dialoghi su determinati argomenti in una sorta di continuo scambio da un lato all’altro della fotocamera.
Un regia sperimentale e amatoriale in un certo senso, completamente affidata ai due giovani protagonisti, ma al tempo stesso frutto di un lavoro teorico di spessore e di una pratica fortemente sperimentale.
Ferrente riunisce nel suo lavoro riprese fatte con il telefono, scene d’archivio girate dalle telecamere di sicurezza la notte della morte di Davide e immagini catturate da telecamere di sicurezza montate ad hoc in vari punti del Rione, riflettendo sul cinema, sullo sguardo esterno, sui dispositivi di controllo, come già avviene in un certo filone del cinema contemporaneo.
Lui lo fa portando questa riflessione teorica agli estremi, alternando spontaneità, artificiosità, riprese attive e controllo “passivo” esercitato dalle telecamere; insiste inoltre sulla presenza degli specchi, quasi fossero dei dispositivi che consentono ai protagonisti di guardarsi dentro e vedersi in modo più chiaro.
Non a caso tutto il docu-film si svolge guardando fisso nella camera dello smartphone e i protagonisti si guardano mentre si riprendono e mentre interpretano la difficilissima parte di recitare se stessi.
A fare da filo conduttore in “Selfie” poi è il tema de L’Infinito di Leopardi, che culmina nella scena più potente – e non a caso poetica – dell’intero documentario.
Alessandro ha lasciato la scuola (o forse lo usa come semplice pretesto) per una discussione con la professoressa di italiano che pretendeva che imparasse la celebre poesia a memoria: un testa a testa che lo condurrà alla bocciatura e alla rinuncia agli studi.
Leopardi che tra l’altro fa parte della storia del Rione Traiano, la sua celebre tomba infatti si trova proprio qui, a due passi da Viale Traiano dove i ragazzi vivono e dove Davide fu ucciso.
Eppure, Alessandro quella poesia l’ha capita benissimo ed è in grado di spiegarla a parole sue, semplici e toccanti. Come Leopardi si era immaginato un’infinità di cose al di là di quella siepe che gli precludeva la vista, così lui vede davanti a sé un muro, un muro sociale, che per lui è rappresentato sue origini e nella vita del Rione. Ma proprio come l’illustre poeta, anche Alessandro è in grado di immaginarsi una vita al di là di quel muro, che si traduce anche nel rifiuto di soluzioni facili e malavitose, nell’impegno in un lavoro umile ma onesto, nella speranza in un futuro migliore per sé e per i propri figli.
Un film toccante, importante per la nostra coscienza civile e per aprire gli occhi su quella che è l’Italia di oggi nei suoi chiaroscuri. In “Selfie” troverete un’umanità sorprendente, una profondità toccante, una realtà amara e un cinico disincanto, ma alla fine di tutto questo troverete ancora una speranza per il futuro che ci aspetta.
Il film è in coproduzione con Casa delle Visioni e Rai Cinema, in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà e patrocinato da Amnesty International ed uscirà nelle sale il 30 maggio. Da vedere.