“Isole dell’abbandono. Vita nel paesaggio post-umano” è un saggio dell’autrice scozzese Cal Flyn, recentemente uscito in Italia per Blu Atlantide con la traduzione di Ilaria Oddenino.
Avendo intuito già dal titolo di cosa trattasse, per me è stato amore a prima vista. L’impressione è stata poi confermata dalla lettura della sinossi:
Dove l’umanità scompare, la natura prospera. Una piccola speranza si nasconde nei luoghi più devastati del pianeta, e ha la forma di un germoglio verde nato sul cemento, dell’inaspettato ronzio di un insetto, del colpo di coda di un pesce che si inabissa in un lago velenoso. Dalla Chernobyl post-nucleare alle più remote isole scozzesi, passando per gli avamposti industriali di Detroit e le sue case abbandonate, le montagne della Tanzania e i grandi fiumi inquinati degli Stati Uniti, fino alla martoriata Verdun e alle regioni minerarie della Scozia, Cal Flyn traccia la sua personale topografia delle isole dell’abbandono. Nella devastazione che il progresso umano e tecnologico lascia dietro di sé la vita riprende a poco a poco il suo dominio sulle cose, mostrandoci da un lato la transitorietà dell’impatto dell’uomo sulla Terra e dall’altro la speranza di una natura che torni in possesso di ciò che le è stato tolto. Reportage brillante sul futuro che ci aspetta, e racconto di un nitore cristallino dei luoghi più remoti del pianeta, Isole dell’abbandono è lo straordinario resoconto degli errori dell’umanità, dell’indistruttibilità della vita e del nostro rapporto con l’ambiente che ci ospita.
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I non-luoghi del libro
Parlare di questo libro può essere facilissimo oppure difficilissimo al tempo stesso, a seconda dei temi che si vogliono includere nel farlo. C’è talmente tanto in questo saggio che ci si potrebbe limitare a fare un riassunto dei luoghi di cui l’autrice parla. Ma così facendo si lascerebbero fuori tutte le questioni etiche e filosofiche che l’autrice stessa affronta, le domande che pone e, in parte, le risposte che dà.
Riusciremo a salvare la Terra o finiremo con il distruggerla? La natura, che ci stupisce sempre, avrà la forza di rialzarsi davanti a tutte le offese subite? E comunque vada, qual è il nostro ruolo in questo processo?
Questi sono solo alcuni dei temi su cui Cal Flyn si interroga e ci spinge a interrogarci. Le sue isole dell’abbandono – luoghi sparsi per tutto il globo in cui queste domande trovano le risposte più diverse – sono il punto di partenza per una riflessione che trascende lo spazio e il tempo.
Non so dire quanto io abbia amato questo libro senza semplificarlo, togliendogli forse un po’ di poesia. È un reportage straordinario che ci mette davanti ai peggiori disastri ecologici di tutti i tempi e insieme ci restituisce l’immagine di una natura indomita, libera di svilupparsi lontana dalla presenza distruttiva e ingombrante dell’uomo.
Per dirla con le parole dell’autrice:
Queste sono storie di redenzione, non di restaurazione. Sono luoghi che non torneranno mai più a essere ciò che erano, ma ci offrono la possibilità di osservare i processi di riparazione e adattamento e, cosa ancora più preziosa, ci regalano speranza. Ci ricordano che, anche nelle circostanze più disperate, non tutto è perduto.
Cal Flyn
A seguire ho voluto raccogliere le dodici isole dell’abbandono visitate e descritte da Cal Flyn nel suo libro. Durante la lettura, infatti, ho sentito la necessità di andare a cercare tutti i posti descritti, in modo da poter dare anche un’immagine concreta a quelle parole (anche se nel libro è già presente un inserto fotografico).
Si tratta di luoghi incredibili, tutti molto diversi tra loro, accomunati dall’assenza o dalla presenza marginale dell’essere umano. La loro bellezza non sempre è immediatamente percepibile, ma se pensate al miracolo straordinario compiuto dalla natura, non potrete che guardarli con occhio diverso.
Se non avete ancora letto il libro, spero che questo post vi faccia venire voglia di leggerlo. E se invece lo avete già letto, spero che possa completare la vostra esperienza.
1. Isole del Forth, Scozia
Inchkeith è un’isola del Fifth of Forth, a circa sei chilometri da Edimburgo. In passato, quest’isola ha avuto una storia molto movimentata, infatti è stata rispettivamente: la sede di una “scuola dei profeti” paleocristiana; un luogo di quarantena per i malati di sifilide; un ospedale per gli appestati; una prigione; una fortezza militare.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale fu abbandonata e oggi è un luogo di grande rilevanza ambientale, in particolare per la nidificazione degli uccelli marini, ma anche per la presenza di foche, insetti e specie rare per la flora e fauna locali.
2. Le Cinque Sorelle, Lothian Occidentale, Scozia
Le Cinque Sorelle sono delle montagne artificiali create dall’accumulo di detriti, scarto dell’industria petrolifera che si sviluppò nella seconda metà del 1800 in questa parte della Scozia. Siamo a 25 km da Edimburgo e queste vette, un tempo considerate delle brutture dal punto di vista paesaggistico, oggi si sono incredibilmente ricoperte di verde e di vita.
Luoghi che non erano altro che discariche abbandonate a se stesse, oggi sono un richiamo per piante e animali selvatici, incluse diverse specie rare.
3. Harjumaa, Estonia
Harjumaa si trova nell’Estonia rurale, luogo che un tempo ospitava i kolchoz sovietici: fattorie collettive che rappresentavano il cuore dell’agricoltura locale e che – nella teoria – servivano ad aumentare la produzione e riscattare i contadini dalla servitù. Di fatto, la collettivizzazione di queste terre portò milioni di persone alla fame, generò carestie e disordini civili.
Quello che oggi ne resta sono palazzoni e fabbricati agricoli in pieno stile brutalista. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, molti di questi terreni vennero abbandonati, lasciando il passo alla natura che si è lentamente ripresa i propri spazi.
4. Chernobyl, Ucraina
Quello di Chernobyl è l’incidente nucleare più grave della storia e ancora oggi è l’ambiente più radioattivo in assoluto sulla faccia della Terra. Quando la notte del 26 aprile 1986 esplose il quarto reattore della centrale, fu colpita ogni forma di vita nel raggio di chilometri, solo per parlare delle conseguenze nell’immediato.
Oggi tutta la città di Pripyat, dove si trovava la centrale nucleare di Chernobyl, è una “zona di alienazione”, dove è interdetto l’accesso ai non autorizzati. Eppure, nonostante questo, la vita è ripresa in forme nuove e inaspettate.
5. Detroit, Michigan, Stati Uniti
Nel 1950, con quasi due milioni di abitanti, Detroit era la quarta città degli Stati Uniti per dimensioni. In quegli anni l’industria automobilistica era in pieno slancio, e in città erano presenti enormi stabilimenti industriali che favorivano la crescita demografica e la prosperità del posto. Ma con l’arresto dell’onda produttiva, la città andò rapidamente al collasso. Oggi la popolazione di Detroit è passata dalle 1.850.000 persone degli anni Cinquanta alle 670.000 del 2019.
Ciò ha reso Detroit una città in decomposizione. Con i suoi quartieri, case e spazi abbandonati, ha dato vita al fenomeno del “blight”, una parola usata per descrivere questo stato di profondo degrado. Dove, in modo sorprendente, si sono create delle praterie urbane ricche di biodiversità.
6. Paterson, New Jersey, Stati Uniti
Paterson è la prima città di fondazione industriale degli Stati Uniti, in altre parole si può definire il cuore del capitalismo nonché il cuore dell’America moderna. Qui si alterò profondamente l’aspetto del paesaggio per sfruttare la forza delle cascate come energia per i mulini delle fabbriche tessili. Quel che resta è un territorio deturpato, costellato di fabbriche abbandonate e acque avvelenate dalle sostanze tossiche usate nella manifattura.
Oggi questi luoghi sono diventati la casa di chi vive ai margini della società, in un certo senso si può pensare a queste ex-fabbriche come uno spazio di libertà, senza regole e aspettative. E in questo scenario anche la natura, ovviamente, approfitta dell’anarchia totale per espandersi liberamente.
7. Arthur Kill, Staten Island, Stati Uniti
Più a sud di Paterson, dove il fiume Passaic incontra il mare, c’è un altro disastro ecologico a ricordare la decadenza dell’eredità industriale. Nello stretto di Arthur Kill giacciono i relitti di più di cento navi dall’aspetto spettrale: rosse di ruggine, inclinate, emergono come carcasse dalle acque basse e fangose. Sono il simbolo di tempi passati, di un’industria che ha visto tempi migliori e poi è decaduta, lasciando tracce indelebili nel paesaggio.
Un cimitero di navi che custodisce un accumulo silenzioso di sostanze chimiche tossiche come la diossina sepolte nella fanghiglia, eredità delle attività che in passato si svolgevano lungo il fiume. E anche qui, nonostante tutto, uccelli marini, pesci, crostacei e piante hanno ricostruito il proprio habitat, popolando questa zona in modo inaspettato.
8. Zona Rouge, Verdun, Francia
Verdun è passata alla storia per essere stata il luogo della peggiore battaglia della Prima Guerra Mondiale: è qui che nacque il termine “ultraviolenza”, con uccisioni su scala industriale e la più alta percentuale di vittime in quel dato perimetro. Al termine dei bombardamenti, il paesaggio era completamente annientato: una landa desolata in cui furono esplosi più di 40 milioni di colpi d’artiglieria in quattro anni.
Dopo la guerra quest’area, solo minimamente bonificata da tutte le bombe inesplose e dalle armi chimiche sepolte, è stata delimitata e interdetta al pubblico. Si decise di ricoprirla di un manto di alberi a custodire gli orrori del passato e di chiamarla Zone Rouge. Oggi è solo apparentemente un “normale” bosco, ricco di vita e biodiversità, ma in realtà ancora pericolosissimo e contaminato.
9. Amani, Tanzania
Nel suo passato la Tanzania fu prima una colonia tedesca e poi inglese. Ad Amani i colonizzatori volevano sentirsi a casa: per questo costruirono ville abbattendo alberi e, nei loro giardini, piantarono specie non autoctone. Con l’arrivo dell’indipendenza, però, molti di questi giardini, un tempo protetti e controllati, vennero abbandonati, lasciano alle specie importate la possibilità di espandersi liberamente.
Ed è così che da decenni si combatte una guerra silenziosa tra specie autoctone e specie importate, che hanno trovato una condizione favorevole per diffondersi e ora rischiano di alterare in modo inesorabile il delicato ecosistema della foresta dei monti Usambara.
10. Swona, Scozia
Swona è una piccola isola al largo della punta più settentrionale della Scozia continentale. La sua lunga storia di occupazione umana si è interrotta nel 1974, anno in cui anche gli ultimi abitanti, un’umile famiglia di contadini, lascio questa terra per motivi di salute. Nel fare ciò – e pensando di tornare nell’arco di pochi giorni – aprirono la stalla, liberando il proprio bestiame. Da allora, si può dire che le mucche e gli altri animali selvatici siano gli unici abitanti dell’isola.
Accanto al fascino delle vecchie case e stalle abbandonate, il fenomeno più interessante di Swona riguarda proprio questa piccola mandria di mucche: lasciate libere di vivere isolate e in natura, hanno ripristinato un ciclo vitale e dei comportamenti sociali ormai sconosciuti all’uomo.
11. Plymouth, Montserrat, Regno Unito
Era il 18 luglio 1995 quando a Montserrat, isola caraibica appartenente al Regno Unito, ebbe inizio un’attività vulcanica senza precedenti. Dopo diverse settimane di emissioni di fumo e cenere, i fenomeni presero a intensificarsi, per arrivare al giugno del 1997 quando l’eruzione infine avvenne e fu distruttiva. Flussi piroclastici, roccia, vapore, fumo, gas, cenere e lava scendevano lungo il fianco della Soufrière Hills.
Un po’ come una moderna Pompei, oggi due terzi dell’isola sono interdetti all’accesso delle persone, sepolti sotto metri e metri di detriti. Plymouth è diventata una città fantasma e irriconoscibile, dove tuttavia la natura è tornata a farsi vedere.
12. Lago Salton, California, Stati Uniti
Il lago Salton fu creato artificialmente all’inizio del 1900, in seguito a un’inondazione che deviò il corso del fiume Colorado. L’allora bacino desertico del Salton Sink si riempì dando origine a un bacino lungo 56 km e largo 24. Negli anni Cinquanta questo posto divenne una rinomata località turistica, con locali, campi da golf, motel, e furono introdotte molte specie di pesci per la pesca sportiva. Ma durò poco e il lago ben presto cominciò a evaporare, lasciando dietro di sé una distesa di polvere tossica a causa delle sostanze chimiche usate in agricoltura e confluite nelle acque.
Oggi il lago Salton è un luogo mortifero, solo nel 2006 sono morti 3 milioni di pesci, senza contare gli uccelli, e gran parte della popolazione circostante è affetta da problemi respiratori.
E nonostante ciò, a soli 11 km dal Salton Lake, si trova uno dei luoghi più strani e iconici del mondo: Slab City. Un posto che dagli anni Sessanta ospita una comunità di hippy, girovaghi, alternativi, tossicodipendenti, artisti, fuorilegge, fuggiaschi e altri ancora. In quella che viene definita “l’ultima città libera sulla Terra”, non esistono leggi, ma anche acqua corrente, elettricità o fognature. È proprio qui che si può ammirare la famosa Salvation Mountain, opera dell’artista Leonard Knight e realizzata interamente con balle di fieno, fango e vernice colorata.
Slab City è un accampamento nel deserto fuori da ogni radar, con un paesaggio in stile Mad Max e temperature che rendono difficile la vita umana. Questo paesaggio potrebbe essere del tutto stravolto dal cambiamento climatico, rendendo infine impossibile qualsiasi forma di vita in questo già precario insediamento.
“Isole dell’abbandono” di Cal Flyn: conclusioni
Le isole dell’abbandono di cui parla Cal Flyn nel suo libro sono ovunque intorno a noi. Sono posti fisici, certo, ma sono anche un modo nuovo e diverso di guardare il mondo e lo stato delle cose.
Nell’arco della sua breve storia su questo pianeta, e in particolar modo dalla prima rivoluzione industriale in poi, l’essere umano ha sfruttato e distrutto gran parte degli habitat e delle risorse, causato il cambiamento climatico, il discioglimento dei ghiacciai, la deforestazione, l’estinzione di centinaia se non migliaia di specie animali e vegetali.
Siamo noi la meteora. Siamo noi il supervulcano. E sta diventando chiaro che le cose non potranno a essere come prima.
Cal Flyn
Il nostro impatto è evidente e l’idea di “natura incontaminata” oggi non sembra più essere non solo possibile, ma neppure verosimile. Questo ci impone nuovi modi di pensare alla natura, e di apprezzarla per altre caratteristiche, come la sua profonda resilienza, la sua capacità di adattarsi e rinascere sempre.
Almeno fino a quando i danni non saranno troppo estesi e troppo profondi. La verità è che ormai dobbiamo imparare ad accettare l’idea che non si potrà più tornare a un “prima” mitologico e fare i conti con l’impronta lasciata dall’uomo.
“Isole dell’abbandono. Vita nel paesaggio post-umano“, dunque, ci insegna a cambiare prospettiva e apprezzare quanto di buono abbiamo e a combattere per proteggere e salvare ciò che resta, senza false speranze.
È un libro bellissimo, poetico e suggestivo quanto allarmante e schietto, che suscita in modo alternato esplosioni di meraviglia e stati d’ansia per ciò che ci aspetta. L’ho amato ad ogni pagina e spero che questo post vi possa ispirare una riflessione su questi temi e, ovviamente, alla lettura del saggio.
Eccola di nuovo, questa vita latente. Aleggia intorno a noi, in ogni istante, invisibile come etere. È nell’aria che respiriamo, nell’acqua che beviamo. Assaporala: ogni respiro e ogni sorso sono densi di potenziale. In questo calice di niente, il germe di ogni cosa.
Cal Flyn
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